«Se mi dovessero chiedere cos’è l’empatia non saprei rispondere » . L’ho pensato fino a qualche tempo fa. Prima di mettermi al lavoro per il mio nuovo libro Empatia Digitale quando ha cominciato a farsi strada in me un pensiero: siamo inclini all’empatia. È un fattore genetico. Immedesimarci nelle storie altrui è una propensione naturale che poi scegliamo di ascoltare o di lasciare andare. Di tenere a un livello superficiale o di radicare. Lo affermano psicologi e studiosi che si dedicano all’approfondimento di questa attitudine umana.
L’empatia, affermano, è molto simile alla lettura della mente. Di fatto si tratta dell’abilità di mappare il terreno emozionale e mentale delle altre persone ascoltando le parole e osservando i movimenti del corpo. Più aspetti conosciamo di chi abbiamo di fronte e più riusciamo a entrare in empatia.
Uscendo dall’astrattismo con cui spesso è trattato questo tema, alcuni neuroscienziati hanno evidenziato che le nostre risposte empatiche si rivelano non solo nelle relazioni consolidate o in quelle con sconosciuti incontrati nella quotidianità. Anche le storie che leggiamo sui media provocano risposte empatiche in noi lettori.
La condivisione dell’esperienza allena l’empatia
Philip L. Jackson e Jean Decety hanno studiato i processi neuronali per definire cos’è l’empatia. Quando vediamo qualcuno in difficoltà, per esempio, abbiamo la reazione immediata di immedesimarci nella situazione e vedere noi stessi vivere quella stessa esperienza. Questo processo è chiamato condivisione dell’esperienza. Mentre questa è frutto di un impulso automatico, un processo ancora più importante che crea le basi dell’empatia è l’assunzione di prospettiva. Ed è questo fenomeno che ci porta all’azione empatica.
Due processi, questi, che non ci rendono capaci di leggere la mente altrui ma certamente ci avvicinano più di quanto possiamo immaginare.
La condivisione dell’esperienza avviene perché i sistemi neuronali del nostro cervello attivano la rappresentazione di una condizione scomoda e la conseguente percezione di come gli altri vivono quello stato. Per farla semplice: un modo per comprendere il dolore altrui è crearsi una propria immagine personale del fatto. Il nostro cervello ha la capacità di intrecciare la nostra e altrui esperienza perché siamo creature altamente sociali.
Il passo verso l’identificazione, a questo punto, è breve. Essere così tanto coinvolti in una storia da sentirsi parte di quello spazio e tempo e così connessi ai personaggi tanto da vivere la loro stessa gioia o il loro dolore, genera in noi una reazione fisica. Quando leggiamo storie, il nostro cervello attiva il processo di apprendimento per cercare similitudini con quanto letto in modo da comprendere la situazione.
Più si viene coinvolti in questo processo, più si è portati a cambiare la propria opinione e il proprio credo sul mondo reale. Si genera quell’effetto domino dirompente che ci spinge ad azioni mai pensate prima: per esempio donare una buona somma di denaro a una famiglia in difficoltà dopo aver letto storie di chi vive in condizioni di povertà. La continua a e costante lettura di notizie stimola in noi l’assunzione di prospettiva.
Ecco spiegato in modo scientifico, perché non possiamo sottovalutare l’effetto che i media hanno sulla nostra mente e sulla nostra vita quotidiana.
Le notizie che leggiamo allenano la nostra empatia e ci spingono a farci un’idea della realtà. La direzione in cui volgiamo lo sguardo dipende, naturalmente, dal tipo di storie che leggiamo.
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