I bambini fanno tante domande. Alcuni studi affermano che un bambino di circa 4 anni pone una media di 390 domande al giorno ai propri genitori. Questo farebbe pensare al fatto che domandare fa parte del nostro essere, come respirare. È talmente parte di noi che anche un bambino lo sa fare. Durante la crescita, però, questa attitudine alla domanda diventa sempre meno istintiva.

Lo psicologo di Harvard Paul Harris, afferma addirittura che un bambino pone circa 40 mila domande nella fase di vita che va dai 2 ai 5 anni. Il genere di domande fatte varia dalla semplice necessità di conoscere il nome di oggetti alla richiesta di prime spiegazioni. Intorno ai 4 anni, in particolare, le domande vengono fatte per ricevere spiegazioni, non solo racconto di fatti.

Il processo delle domande è altamente creativo.

Nei più giovani, vista l’attitudine a porre dei quesiti in modo frequente, si verifica un’esplosione di connessioni tra i neuroni nel cervello, una cosa come un quadrilione di connessioni. Tre volte tanto quante sono quelle che avvengono nel cervello adulto. Motivo per cui la mente dei bambini crea costantemente stimoli e pensieri e ce li mostra così creativi e fantasiosi. Sembrano avere una soluzione per tutto, con una fervida immaginazione. Mentre si creano queste connessioni neuronali, essi cercano nuove informazioni e fanno chiarezza.

E non che sia facile per i bambini fare domande. Harris afferma che si tratta di una “serie di manovre mentali complesse”. Soprattutto occorrono due consapevolezze, innate nel bambino: quella di non sapere e quella che a ogni domanda corrispondono differenti risposte.  

Tendenzialmente questa attitudine alle domande va sempre più diminuendo dai 5 anni in poi. Non in tutti, però. Non si è interrotta in personaggi come Steve Jobs o in Jeff Bezos, per esempio. O in molti altri visionari del nostro tempo come Joe Gebbia e Brian Chesky, fondatori di Airbnb. Vivevano insieme a San Francisco in un appartamento spazioso ma non avevano soldi per pagare l’affitto. «Come possiamo fare?» Così è cominciato tutto. Oppure Edwin Land che diede vita alla Polaroid tenendo a mente una domanda posta da sua figlia durante una vacanza nell’inverno del 1943: «perché dobbiamo aspettare a vedere le nostre foto?». E infine, pensiamo a Netflix, una delle storie di business più amate di questi tempi che nasce da una frustrazione quotidiana di Reed Hastings: pagare una quota per il ritardo alla consegna di un video noleggiato da Blockbuster.

C’è una cosa che accomuna loro e tutti coloro che hanno realizzato qualcosa di grande: erano, e sono, eccezionali nel porsi e porre domande. Ovviamente sono anche bravi ad ascoltare le risposte e trasformarle in azioni. Ma la domanda scaturita da una necessità quotidiana è stata la svolta per molti di loro.

I bambini sono nati con la capacità di porre domande. E noi siamo stati tutti bambini. Quindi va da sé che non dobbiamo imparare a farci domande, dobbiamo piuttosto allenare il muscolo delle domande che si è atrofizzato durante la nostra crescita.

Farsi una domanda interessante spinge a trovare risposte che, inevitabilmente, porteranno in un luogo sconosciuto. Fuori dalla propria zona di confort. E, se stiamo cercando ispirazioni e illuminazioni creative, non è affatto male stare lì.

Ma occorre l’azione, sia chiaro. La differenza tra porsi semplicemente una domanda e seguire il percorso neuronale che genera è quella che esiste tra flirtare con un’idea e viverla. Quando si sceglie di vivere l’idea allora si entra in quello che lo psicoterapeuta Eric Maisel chiama “produzione ossessiva”. L’idea, in questi casi, invade ogni attimo di vita: entra nei sogni, cammina con noi, lotta con noi, dorme con noi. E si trasforma, giorno dopo giorno, in qualcosa di concreto.