Ho smesso un bel po’ di tempo fa di pensare che chi fa comunicazione possa prescindere dall’empatia. Così come non riesco più a pensare ai social network senza riflettere sul concetto di empatia digitale.


Siamo persone e siamo tutti comunicatori. È un’etichetta questa che ci appartiene in quanto esseri umani e con la quale dobbiamo fare necessariamente i conti. O forse no, non dobbiamo, possiamo. L’empatia digitale è un territorio che fornisce grandi opportunità di esplorazione e riflessione. Definire empatico un social media può apparire bizzarro ma non lo è se ci ricordiamo che dietro ogni post – scritto o letto – c’è una persona con una propria storia. Anche se ritengo valido il pensiero che l’autenticità e la coerenza si misurino offline, resta il fatto che attraverso le condivisioni e le scelte fatte sui social media si può conoscere molto bene una persona. Soprattutto, cambiando punto di vista, è possibile riconoscere gli aspetti costruttivi della realtà mettendosi nei panni altrui e condividendo contenuti utili agli altri.


«Le storie sono dati con un’anima»
afferma Brené Brown ed è una frase che amo perché mi tiene ancorata all’idea che non possiamo pensare di raccontare numeri senza raccontare una storia. Così come non possiamo più permetterci di condividere parole senza aggiungere ciò che ci connette ad altri. Da giornalista trovo questo un invito importante che non possiamo più declinare. Una cosa è mettersi al di sopra dei fatti raccontandoli provando simpatia, un’altra è calarsi nella situazione e utilizzare la nostra capacità empatica – fornita in dote alla nascita come abbiamo visto – per creare connessioni con i protagonisti della storia. Non è sempre facile ma è necessario per noi e per chi legge.

Empatia e pregiudizi


Esistono dei pregiudizi sull’empatia che sembra essere associata all’idea di debolezza, vulnerabilità eccessiva e attivismo. Come se sentirci umani possa essere un limite. Ho imparato, con il tempo, che l’empatia diventa costruttiva se ne cogliamo l’invito all’esperienza e non all’assorbimento. Non sarebbe sano farsi sopraffare da ciò che provano le persone coinvolte nella narrazione perché non produrrebbe un contenuto di qualità. Empatia non significa entrare a far parte delle circostanze dei protagonisti ma permettere alle emozioni create dalle circostanze di entrare in contatto con noi. L’obiettivo è cogliere il significato della storia e raccontare i fatti in modo meno impersonale e distaccato restando ancorati all’idea di rispetto dell’essere umano.


Personalmente cerco questo tipo di esperienza ogni volta che incontro una storia, quando intervisto e quando comincio a scrivere. Che si tratti di un articolo, di uno contributo editoriale, di un post social o di una mail. Dopo ogni intervista o contenuto prodotto so bene che non sarò più la persona di prima. E non è straordinario questo? Va bene entrare un po’ nella vita altrui.

 

Osservo tanto di quel che avviene sui social media in fatto di contenuti. Prendo appunti e provo a identificarmi nei protagonisti. A volte mi si chiude lo stomaco di fronte a parole di odio, altre mi si apre il cuore leggendo parole d’amore sociale. Rido, piango di commozione. Provo emozioni attraverso i contenuti. Perché ritengo che in questo tempo siano loro i veri protagonisti. I messaggi che diffondiamo, che alimentiamo e che onoriamo. Non saprei dirti quante volte mi sono resa conto che un contenuto viene condiviso con superficialità. In perfetta buona fede, s’intende, ma con un effetto dirompente.

L’effetto delle nostre azioni, però, non tiene conto della buona fede. E noi di questo, invece, dobbiamo tener conto.