È idea comune che dove c’è guerra non possa esserci speranza e che quando i media raccontano le tragedie debbano necessariamente mostrare immagini forti, devastanti, di quelle che scardinano la nostra serenità. Scatti in cui la luce appare utopia. Immagini che siamo abituati a vedere quando ci viene raccontato l’ennesimo conflitto mondiale, il genocidio di popolazioni, le devastazioni di calamità naturali. Immagini dure, cruente, impressionanti.
L’obiettivo evidente è quello di attirare l’attenzione di tutti noi verso quanto nel mondo accade. E questo di certo avviene. Chiunque di noi può confermare che di fronte a un’immagine di devastazione di cose materiali e di persone ci fermiamo, ci si stringe lo stomaco e ci chiediamo perché debbano accadere queste cose.
Queste foto, però, non ci spingono ad agire. O per lo meno non accade per la maggior parte delle persone che le guardano. La sensazione della maggioranza di noi è di essere passivi di fronte al volere dei potenti e a quanto sta accadendo sul nostro Pianeta, ancor più se si tratta di Paesi molto lontani da noi. Ci sentiamo impotenti. E l’impotenza è inazione.
La foto qui accanto porta con sé un insegnamento profondo. A scattarla è stato Jan Grarup, fotografo danese che ha vinto diversi premi internazionali e le cui foto appaiono sui più importanti quotidiani del mondo. Il suo nome è sinonimo di fotografo di guerra. Ha scattato foto durante la Guerra nel Golfo, ha coperto il genocidio in Rwanda e in Darfur, l’assedio di Sarajevo, le sommosse in Somalia e la devastazione di Haiti.
Durante un’intervista rilasciata a una giornalista danese, Grarup ha affermato che per buona parte della sua carriera ha creduto che per spingere le persone ad agire fosse importante mostrare le ingiustizie, gli omicidi, la povertà e l’oppressione dei potenti. «Ho pensato che vedere bambini uccisi da una granata avrebbe spinto le persone a reagire. Mi sono reso conto, invece, che le persone restano in silenzio. Non accade nulla. O almeno non accade ciò che mi sarei aspettato accadesse». Grarup, dopo vent’anni di copertura dei maggiori conflitti mondiali, ha realizzato che le persone non si connettono con la disperazione, la morte e la perdita di una visione futura. Le persone si connettono con la speranza.
Abbiamo bisogno di ispirazione.
Abbiamo un forte bisogno di vedere che esiste un sentiero percorribile.
Abbiamo bisogno di intravedere la speranza.
«Oggi sono questi gli elementi che includo nelle mie foto e ricevo molte più risposte dalle persone rispetto a prima. Mi accorgo di fare un ritratto più accurato della realtà rispetto a quanto facessi all’inizio della mia carriera. E non è questo quello che dovrebbe fare il giornalismo?»
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La foto qui in alto è stata scattata da Jan Grarup durante le devastazioni di Haiti. Le persone camminavano disperate tra le rovine in cerca di cibo e acqua. Grarup racconta di aver notato la coppia protagonista della foto e di essere stato attirato dall’aspetto di lei. Vestita bene, i capelli raccolti in ordine e la mano in quella del suo compagno. «Per me questa è un’immagine che racconta un esempio di resilienza e speranza proprio dove non ti aspetteresti di trovarne.»
Identificarsi con questa realtà possibile è ciò che porta chi vive queste terribili situazioni a credere di poter essere esattamente come quella persona nella foto.
Non possiamo cambiare ciò che è stato ma possiamo leggere un barlume di speranza in quel che accade. Perché la speranza ci spinge a credere nel cambiamento. La speranza accende la gioia e lo spirito di sopravvivenza.
[Tweet “La speranza accende la gioia e lo spirito di sopravvivenza.”]
Foto in copertina © MARIE LOUISE MUNKEGAARD
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